Già la Banca Centrale russa ha dovuto rialzare i tassi per ben 5 volte in un anno arrivando ad aumentarli di oltre 200 punti base, senza riuscire a vincere il nemico dell’inflazione cavalcante che punta ormai al 10%. La causa scatenante sarebbe la crisi del petrolio, ma è indubbio che un elemento decisivo, soprattutto nel recente passato, è stato l’indebolimento forzato del dollaro attuato dalla Federal Reserve che ha continuato per circa si anni a manipolare volutamente il biglietto verde per riuscire a favorire l’export del Made in Usa.
Il dollaro non può scegliere solo per sè
Una scelta più che legittima per una nazione che è padrona della propria moneta, ma che non si addice a una divisa che rappresenta le commodities e che si erge a parametro per l’intero sistema finanziario mondiale. Così come non può reggere a lungo una strategia del genere in un panorama globalizzato oltre ogni limite. Non si è fatta aspettare la reazione dell’allora ministro delle finanze brasiliano Guido Mantega che già dal 2010 parlava apertamente di guerra valutaria, nonostante le autorità statunitensi rigettassero la definizione. Per ovvi motivi. Ma la scelta di non sottostare più allo strapotere del biglietto verde serpeggia in tutti gli appartenenti a quella variegata categoria di nazioni che vengono – erroneamente – raggruppate tutte sotto la categorie eterogenea di Emergenti. Come fa notare Fabrizio Zampieri, economista di Eurocom Investments di Dubai, le altre economie, come le rispettive valute, stanno crescendo e maturando, sempre più consapevoli della loro forza, per questo motivo, presto, decideranno di non sottostare più alle egoistiche necessità del “grande vecchio” ovvero di un dollaro che ha senza dubbio il merito storico di aver rappresentato per decenni l’economia mondiale, dandole la forza e la sicurezza del suo sistema economico, ma che, adesso, inizia a non rappresentare più il poliedrico e soprattutto polimorfo fronte delle nazioni Emergenti.
Yuanizzazione o dedollarizzazione?
Sigla che comprende realtà come la Russia, ma anche la Cina che di “emergente” ormai, non ha più niente, nemmeno quel renminbi che fino a poco tempo fa era relegato nelle retrovie di una moneta reietta ma che oggi sta conquistando il palcoscenico, rubando il secondo posto all’euro, tra le monete più scambiate commercialmente, tanto da far parlare addirittura del fenomeno di “yuanizzazione del mercato”.
Una situazione paradossale anche quella della valuta cinese: lasciata fluttuare entro un range di oscillazione intorno al 2%, il cui tasso di cambio è in mano saldamente al governo e per lui la People’s Bank of China (PBoC), la quale vedrebbe di buon occhio un rialzo del rapporto dollaro/yuan in vista di una coppia Yen ed Euro molto più deboli degli attuali.
Interessante fare alcune valutazioni sulla Cina: nel caso si volesse far restare Pechino sulla scia dei Brics, vedrebbe una divisa costretta ad andare contro corrente rispetto ai suoi “confratelli” di categoria. Infatti mentre Brasile e Russia stanno ferocemente rialzando i tassi, la Cina, invece, li sta tagliando. E con ogni probabilità anche l’India, complice la politica del suo nuovo primo ministro premier Narendra Modi, considerato “market-friendly”, ma anche di un favorevole prezzo del petrolio che, in caduta libera, permette a Nuova Delhi di risparmiare sul 90% dell’oro nero importato.
Il quale è ancora valutato in dollari ma, dopo quanto detto, per quanto ancora lo sarà?